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Basilica di Sant’Antioco Martire

Conoscevo la basilica di Sant’Antioco per averne letto le vicende nei libri di Raffaello Delogu, l’autore de L’architettura medievale in Sardegna, certamente il testo più noto in assoluto fra quelli che hanno trattato la storia dell’arte nell’isola. È stato Delogu a ispirare i lavori con cui si è ripristinata quella che veniva considerata, allora, la condizione originale dell’edificio, risalente all’inizio del primo millennio, spogliandolo della decorazione barocca. Studi successivi ci hanno detto che quell’originalità è più sfumata di quanto non si pensasse cinquanta anni fa, visto che l’edificio romanico deriva, probabilmente, dall’unificazione di un sacrario a pianta centrale, paleocristiano, con un’aula longitudinale, d’epoca posteriore.

Anche l’eliminazione degli intonaci, che ha lasciato gli interni in una nudità brut, è qualcosa sulla cui pertinenza filologica si potrebbe discutere, rispondendo più a un’idea romantica del Medioevo che alla sua realtà verificata, un po’ come la neutralità cromatica della scultura antica va ritenuta concetto neoclassico piuttosto che greco-romano.

Originale o meno che sia, è certo che così come è stata recuperata, la basilica di Sant’Antioco ha acquisito un fascino ulteriore, di energia strutturale e di forza concentrata, che dal punto di vista architettonico va considerato il suo carattere peculiare. Il restauro lo ha evidenziato al meglio, in un modo che qualunque superficie di intonaco avrebbe attutito, proponendo per essa una lettura che oggi potremmo considerare critica, più ancora che filologica, ma comunque lecita, soprattutto in virtù del risultato conseguito, che non fa rimpiangere per niente la perdita delle decorazioni barocche, artisticamente poco significative. Un caso che dimostra quanto, nella pratica, sia complicato concepire il restauro architettonico in un modo integralmente scientifico, simile a quello che viene applicato ai dipinti o alle sculture, qualora non si abbia l’assoluta antico, dettata da uomini moderni, fosse stata condizionata dalla mentalità e dal gusto dell’epoca, è stata la più congeniale alla piena valorizzazione del monumento.

Già diverso, però, è il discorso riguardante l’esterno, per il quale l’azzeramento delle aggiunte successive – la facciata, il campanile, l’edificio più alto di Sant’Antioco, nel punto più alto del paese, ben visibile a distanza – non ripristinerebbe nulla di più significativo dell’attuale, ma lascerebbe, semmai, un vuoto, per quanto, a qualcuno, potrebbe sembrare di sapore antico. È vero che dal punto di vista artistico la facciata e il campanile non hanno niente di particolarmente rilevante, ma sono testimonianze di una storia comunque importante, anche quando non la si trovasse scritta nei manuali e nelle guide turistiche, appartenendo alla memoria collettiva degli abitanti di Sant’Antioco, alle loro vite, alle vite dei loro avi, così come le hanno conosciute da loro.

È una memoria locale che va preservata e tramandata nel tempo, almeno fino quando essa sarà ancora riconosciuta come un valore irrinunciabile. Non hanno motivazioni culturalmente qualificate, quindi, i tentativi, anche recenti, di eliminare tutti gli aspetti post-medievali della basilica, certezza dell’aspetto e dei materiali originari. E anche quando ciò fosse stato conseguito, le problematiche non si esaurirebbero di certo; perché andrebbe sempre valutato, per esempio, se un restauro scientifico sia realmente necessario quando non è in grado di valorizzare al meglio i significati civili e sociali di un monumento, potendo, in fondo, essere proposto in un plastico o nell’illustrazione di un libro, che ne garantirebbero ugualmente la conoscenza; oppure, se il ripristino dello stato più antico di un edificio sia sempre il più legittimo, azzerando visivamente una vicenda storica che può essere anche complessa e articolata, con altri episodi degni di essere ricordati, non solo dal punto di vista storico e artistico.

Per l’interno della basilica di Sant’Antioco, possiamo dire che la scelta della nudità originaria, anche se la sua idea dinell’illusione di recuperare un’integrità storica che, come abbiamo visto, è opinabile sotto vari punti di vista. Al contrario, lo scarto fra l’esterno e l’interno accentua l’impressione del divenire storico e fornisce un’emozione particolare a chi entra in questa chiesa, come un improvviso viaggio a ritroso che conduce a un tempo remoto, sobrio, spirituale. Per ciò che mi riguarda, è un’emozione che ha suscitato anche una condizione di disagio personale, avendo potuto concedere un tempo molto ristretto alla visita della chiesa, per le emergenze della vita che mi fanno essere sindaco di Salemi, un posto lontano da Sant’Antioco, ma non tanto da Mozia, la “sorella” siciliana della progenitrice di Sant’Antioco, Sulci, anch’essa isola raggiungibile a piedi, anch’essa colonia punica alla quale fa seguito un insediamento romano, anch’essa nucleo urbano contraddistinto dal notevole rilievo, non solo simbolico, che acquisiscono due luoghi di morte, la necropoli e il tophet.

Due vicende, quelle di Sant’Antioco e Mozia, che mutano con l’apparizione delle due nuove religioni destinate a dominare il mondo, il Cristianesimo e l’Islamismo. Sant’Antioco, grazie al suo santo omonimo, anomalo, perché moro, nord-africano convertito, e grazie, soprattutto, al suo santuario, reverito in tutta la Sardegna, diventa un avamposto della cristianità contro il pericolo islamico, personificato dai pirati arabi che periodicamente, fino all’Ottocento, devastano le sue coste. Mozia, ormai abbandonata, non pone resistenza all’occupazione araba della Sicilia, origine di una convivenza fra locali e islamici che ancora caratterizza la vicina Mazara del Vallo. Nell’XI secolo, più o meno nel momento in cui i monaci Vittorini dovettero realizzare la basilica di Sant’Antioco, i Normanni affidano Mozia ai Basiliani. Ma Mozia non avrà mai un santo da reverire, tanto meno un sacrario che ne conservi le spoglie, e ciò la porterà alla morte, per certi versi provvidenziale, visto che ha favorito la preservazione di un patrimonio archeologico straordinario. Il ruolo delle religioni nelle vicende di Sant’Antioco e di Mozia mi invita a fare qualche riflessione sull’incidenza che esse continuano a esercitare nelle nostre identità culturali.

La laicizzazione del mondo, figlia della civiltà industriale, non è ancora arrivata, fortunatamente, a minare il presupposto storico dei nostri attuali modi di essere. Per quanto riguarda l’Occidente cristiano, credo che la nota affermazione del laico Benedetto Croce, non possiamo non dirci cristiani, abbia mantenuto intatta la sua validità. Sono cambiati i costumi, le mentalità, il senso stesso con cui i singoli percepiscono la fede, più personalizzato, quindi meno legato alle ritualità di gruppo, ma non fino al punto di rinnegare la matrice storica del nostro modello civile. Non credo sia stato casuale che le democrazie moderne siano nate sotto civiltà cristiane, condividendo fra di esse molti valori sociali, a partire dall’uguaglianza dei diritti. Immagino che anche per il mondo islamico ci sia stato un Benedetto Croce che abbia espresso un concetto analogo. Magari facendo riferimento a società in cui, rispetto alle nostre, c’è più religione professata, ma anche meno democrazia moderna, cosa di cui va tenuto conto. La percezione che noi abbiamo del mondo arabo è che non esista una sola persona che non sia musulmana, più ancora di quanto non potremmo dire per gli occidentali cristiani. In realtà, le cose sono più complicate.

È vero che considerarsi musulmano corrisponde al riconoscimento di una specifica condizione culturale, ma non di visioni del mondo equivalenti, che in taluni possono essere di apertura e mediazione con la modernità, di tolleranza del diverso, in altri, per fortuna pochi, di chiusura, di fanatismo integralista, in altri ancora, anche di agnosticismo. Ciò non toglie che tutti questi diversi modi di essere musulmano facciano riferimento a una base di partenza comune, che è ancora determinante nel definire le formae mentis corrispondenti. Conosco personalmente lo scrittore Tahar Ben Jelloun, marocchino di nascita, francese d’adozione, che certamente non è un credente, nel senso della rigorosa fedeltà a una religione confessata. Eppure si considera un musulmano nei comportamenti, nel costume, nelle scelte, molti dei quali ereditati da musulmani credenti; non potrebbe fare a meno di questa parte della sua identità culturale e sentimentale, che gli permette di confrontarsi in modo critico con la modernità occidentale, di cui riconosce i meriti anche rispetto alla sua emancipazione culturale, ma di cui apprezza meno il suo essere tendenzialmente omologante, poco rispettosa delle diversità, anche di quelle in cui lui, oggi, si riconosce solo in parte.

Il rispetto delle civiltà a matrice religiosa non dovrebbe mai prescindere dalla presa di coscienza della loro diversità. In arte, questo è avvenuto perfettamente. L’arte occidentale, figlia di quella greco-romana, pagana, ha preferito esprimere il senso del bello attraverso l’idealizzazione dell’umano, replicando, per certi versi, il processo creativo con cui la natura è stata istillata di Dio. Nell’arte musulmana, che pure non deve poco a quella greco-romana, il senso del bello si esprime in una dimensione che prevalentemente esula dall’incarnazione umana, superando la sua condizione fisica, in una chiave di maggiore astrattismo astrattismo mentale. Solo un ottuso occidentale potrebbe disconoscere che l’arte musulmana sia stata incapace di esprimere un senso del bello altrettanto dignitoso di quello dell’arte cristiana. Le influenze fra le due arti, strettissime in alcuni momenti storici e aree geografiche, dimostrano che il reciproco interesse, e quindi la sostanziale legittimazione estetica, è figlia del passato, non dei tempi recenti.

È indubbio, però, che per un occidentale i due modi di esprimere il senso del bello non siano equivalenti; uno fa parte integrante della sua identità culturale, essendo ancora motivo vivo della propria esistenza, l’altro lo è certamente di meno. Altrettanto, naturalmente, potrebbe dire un musulmano. L’una e l’altra mentalità meritano lo stesso rispetto, ma senza che ciò porti a considerarle uguali: solo un processo autoritario, di genocidio culturale, potrebbe farle diventare tali. Non siamo uguali neanche quando fra uomini di diversa matrice culturale si stabiliscono convivenze felici, come quelle che contraddistinguono già il mondo di oggi, e sempre più lo saranno in quello di domani.

Salemi è un simbolo storico esemplare della convivenza interreligiosa, avendo ospitato, fin dal Medioevo, una comunità ebraica e una musulmana vicino a quella cristiana, ognuno con una propria zona di appartenenza. I cristiani ottusi, che non vivevano a Salemi, né comprendevano il modello civile che proponeva, troppo evoluto per un mondo che ancora, in nome del dio migliore, concepiva la contrapposizione delle civiltà, dicevano che era una città di Satanasso. Rischio che certamente non corre Sant’Antioco, luogo che simbolicamente può forse proporre un altro modello di convivenza, ancora cristianocentrico, che prevede la conversione dell’etnicamente diverso.

Luogo che in ogni caso, nell’identificare il proprio nome con quello del santo patrono, esibisce immediatamente l’orgoglio della propria identità storica e culturale, irrinunciabile, antica, eppure modernissima nello stabilire la relazione fra livello civile e religioso, se è vero che si riconosce nel culto di uomo di colore. Concludo con la felicità di essere stato a Sant’Antioco, e di avere avuto il saluto del parroco Don Demetrio Pinna e del Sindaco Mario Corongiu, uniti nel nome di Sant’Antioco a cui io stesso invio il mio pensiero devoto.

 

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